Per allietare la nostra memoria ed i nostri sogni, un racconto che narra di pirati, vascelli, velieri e caldo potrebbe essere l’ideale per far volare il nostro pensiero dentro una storia di fantasia, ma che per magia ci cattura con serena armonia.
Tutto iniziò un giorno lontano, quando le storie di pirateria erano più importanti di qualsiasi altro evento che potesse accadere. Corsari, pirati, vascelli e velieri spagnoli e britannici da abbordare. Il calore dei Caraibi, le taverne piene di rozzi galeotti pronti ad uccidere per qualche sporco doblone.
Ma, come in tutte le storie che si rispettino, a catturare l’attenzione di chi scrive, preso dalla frenesia del sogno, e del lettore, rapito dalle parole, c’è il protagonista. Ed il nostro, è un giovane ed avventato pirata, iniziato alla carriera sulla nave del grande pirata Barbarossa, dove era il mozzo tuttofare.
Cresciuto con ciurme di tutti i generi, allenato ai sette mari, il giovane crebbe fino a quando, un giorno, se ne andò. Prese un piccolo Sloob, imbarcazione di piccola stazza, comprato con i risparmi di una vita e, con altri tre uomini, amici fedeli, prese il largo.
Di lui non si ebbero più notizie per alcuni anni, fino a quando, una notte, una di quelle dove la luna splendente sul mare veniva pian piano offuscata da quella fitta nebbia, che si addensa fino a creare una coltre spessa e spaventosa, dove nelle ossa ti vengono i brividi di terrore pensando alle leggende delle navi fantasma, si vide una sagoma nera, in lontananza, mischiata con le nebbia grigia ed i raggi pallidi della luna, una stazza imponente che stava arrivando nella baia dell’isola di Norman, nell’unica insenatura conosciuta in cui poter sbarcare. Si, l’isola di Norman, conosciuta successivamente negli anni come l’isola del tesoro. La stazza dell’imbarcazione fendeva la nebbia come un coltello tagliente, quasi a far capire che avrebbe potuto osare di tutto. La nebbia sembrava muoversi al suo passaggio e, come improvvisamente calata, così di li a pochi istanti si diradò, svelando la nave, un poderoso veliero, con cannoni luccicanti come fossero d’argento, vele di un bianco lucente che nemmeno le stelle potrebbero esserlo di più. Una ciurma composta da prodi combattenti, armati ed abili, circa 60 uomini, e poi lui, il giovane partito anni prima con una piccola imbarcazione, comandante di un veliero da mille ed una notte, sconosciuto a tutti ma non ai suoi uomini. Il suo nome era Enry Fly ma lo chiamavano Silver, comandante del Veliero Blade Sea.
La curiosità dicono sia donna, ma non sempre è così. Silver aveva una morbosa voglia di sapere il suo nome. La cena iniziò, e di li a poco egli non resistette ” Mia signora, la vostra presenza illumina tutta la stanza, ancor di più della luna che splende, e delle stelle che brillando rendono luminosi i vostri occhi. Vi prego, concedetemi l’onore di conoscere il vostro nome”
” Volevo farvi stare sui carboni ardenti fino alla fine, ma siccome il vostro comportamento è degno di un vero pirata gentiluomo ve lo dirò. Mi chiamo Isabelle Carugue, ma tutti mi chiamano Lady Black”
Andarono avanti a chiacchierare, bere e mangiare tutta la notte. Le diede una camera della nave, la sua camera, quella del comandante, e lui andò in un’altra stanza, per farle capire che la sua galanteria era vera.
Una sera, come solito essere, Silver salutò Isabelle augurandole la buona notte. Lei a voce bassa, per la prima volta, disse ” Rimani. Sta sera non andare. Vorrei che tu iniziassi a rimanere….” Lui si bloccò, sentii il suo cuore fremere e palpitare talmente forte che nemmeno l’adrenalina delle battaglie più feroci lo fecero pulsare così. Un brivido, un tremito, un calore freddo ma dolce lo avvolse. Si girò verso di lei, stupendamente luminosa con i raggi di luna che la colpivano dalla finestra della poppa. Incantevole visione di una donna con i capelli ricci raccolti con la coda, il viso leggermente chino, lo sguardo dolcemente caldo verso di lui. E lui con calma e tranquillità chiuse la porta della stanza, le si avvicinò, le accarezzò il viso, così vellutato da sembrare il petalo di una rosa, le sfiorò i capelli spostandoli dalle sue guance, annusò il suo profumo, un profumo naturale, creato con estratti di gelsomino ed orchidee, inebriante più del miglior vino, la fissò negli occhi. Lei era appoggiata con la schiena ad una colonna in legno lavorata del letto, con le braccia dietro di se. Le labbra si avvicinarono. Il bacio. Oh sì, quel fatidico bacio aspettato da così tante lune, quel sapore di frutti di bosco delle sue labbra, quel bacio, che racchiudeva tutte le parole che si dicono in silenzio. Il vero primo loro bacio appassionato. E la notte era appena iniziata, lunga, con lieve brezza estiva, non troppo calda, ideale per permettere a due amanti di gioire dei loro piaceri, di soddisfare le loro esigenze erotiche. E che mattina diversa, svegliarsi con lei accanto, guardarla nel sonno, accarezzarla, tenerla a lui, proteggerla, e lei sorridente nel sonno, felice. Felice di aver fatto il primo passo, contenta di come tutto stava andando. Magari in fretta, ma forse doveva essere così.
Tutti immobili, senza parole. Era la prima volta che vedevano, Silver ed Isabelle compresi, una “Nave Fantasma”. Alla deriva, vele rotte e squarciate, albero maestro rotto per metà. Silver ordinò agli uomini di “arpionarsi ed agganciarsi”. Si fissarono all’imbarcazione. Alcuni uomini avevano paura avendo più volte sentito storie di fantasmi e scheletri che vivevano sulle navi fantasma e che non potevano essere uccisi. Silver, Lady Blake ed alcuni uomini salirono a bordo del vascello. Spada in una mano, pistola armata nell’altra.
Iniziarono ad esplorare il ponte. Tutti vicini a guardarsi le spalle l’uno con l’altro. Nulla, nessuna ombra di equipaggio. C’erano bauli chiusi, botti, cannoni arrugginiti e con alghe incrostate sopra. Salirono sul ponte di comando, entrarono nella poppa della nave guardando sempre con cautela eventuali ombre in movimento. Arrivarono nella cabina di comando, la porta era socchiusa. Silver lentamente la aprì, un forte cigolio, quello di una porta che era li bloccata da molto molto tempo. Un sobbalzo, un sussulto, alcuni uomini iniziarono a tremare. La scrivania del capitano, la sua sedia di comando, e li, come se li stesse aspettando, il comandante. Cappello blu, o almeno quello che ne rimaneva, ma cappello da corsaro, giacca blu e grigia, anche quella mezza consumata dal tempo, con bottoni d’oro inverditi dall’umidità. E poi lui, ormai scheletro, senza più carni, senza più pelle, con in mano ancora la sua pistola.
Il 2017 che sta andando via e’ stato un anno davvero difficile e complesso ma mai arrendersi, mai farsi sopraffare, mai cedere e, soprattutto, imparare a godere delle piccole cose, delle sfumature, dell’ottimismo perché domani potrebbe essere migliore e quindi, cerchiamo sempre di vedere il bicchiere mezzo pieno. Le conquiste, anche piccoline, sono quotidiane….bisogna guardarle e goderne.
Buon anno a tutti dal Team di 50annieround e dalla sua pagina FB
Ci sono canzoni che, come si, sa fanno volare con la mente.
Fanno tornare indietro nel tempo. Le storie che raccontano sembrano a volte le nostre.
Ed io, ascoltandone alcune, torno con la memoria al giorno che incrociai nella mia strada un’ amica. Storie diverse ma accumunati da anima e cuore. Ci si confida raramente ma a volte accade che per sensazione o visione astrale entri in sintonia con quella persona.
Da quel momento ci si iniziava a sentire spesso. Racconti, storie, sfoghi dell’anima. E poi iniziai a scrivere per lei nel suo splendido portale.
Ma un giorno ci allontanammo, non per screzi o litigi, ma per scelte di cammino diverso, che ci ha spostato il baricentro dell’amicizia in secondo piano per vari motivi, vuoi anche nostri personali.
Ma i pensieri volano. L’amicizia va oltre ad ogni barriera.
E anche se presi da frenesia lavorativa, nuovi incontri e nuove compagnie, la lealtà ed il rispetto la faranno sempre da padrone.
Ci si sente, di rado, ma ci si sente. Ci si sostiene con parole di conforto reciproco quando qualcosa va storto. Ci si promette anche un caffè come capitava una volta.
Ma la distanza ed il lavoro a volte ci blocca.
Una promessa le feci.
Un pensiero serio ancora in esclusiva per il suo portale. E questo è il mio ringraziamento.
Di una persona che tramite lei ha aperto gli occhi su strade percorse.Una persona luminosa.
Da lei ho avuto insegnanti di vita. Ha avuto del tempo per me. Ed il tempo non ha prezzo.
I miei migliori racconti sono nati lì, nel suo mondo virtuale. E ricorderò sempre il racconto fatto su due ragazzi e la loro madre incontrati per caso in una zona di New York.
La vita insegna sempre.
Insegna a vivere con il sorriso anche se spesso non si riesce nemmeno ad alzare gli occhi per guardare le persone. Si impara a cadere rimanendo comunque in piedi. Ma soprattutto si capisce il vero valore dell’amicizia, non fatta per convenienza o secondi fini. Ma perché reale sincera e rispettosa.
Io ringrazio te Patrizia per avermi permesso di migliorare la mia vita capendo il percorso di vita e spirituale da intraprendere. E la mia amicizia, quella reale e quella fantastica del misterioso Oxford Brogue, sarà per sempre senza esitazioni
E chi volesse capire il vero peso della lealtà, basta che provi ad essere presente quando arriva una richiesta di aiuto, di ascolto, di voglia semplicemente di parlare. L’amicizia è stare a sentire, ma ascoltando non facendo solo presenza.
Grazie del tuo tempo
“Per te. Per la tua lealtà. E per la tua amicizia. Una promessa ti feci ed una riflessione ho scritto. Se pensi che valga la pena pubblicarla fallo. Altrimenti tienila nel tuo cuore. Sei una donna unica e speciale. Non mollare mai perché mi hai insegnato a non farlo e a non perdermi nelle ombre e nel buio”
Questo pensiero di Oxford e’ arrivato ieri sera, come un fulmine a ciel sereno e inaspettato. Mi ha lasciato di sasso, non credevo, non pensavo. Mi ha commosso a tal punto che ho voluto tenerlo per me, solo per me per qualche ora prima di pubblicarlo. L’ho fatto accoccolare a fianco al battito del cuore, l’ho fatto danzare al suo ritmo, l’ho fatto addormentare al suo rintocco.
Stasera ve lo regalo
Oxford, come piu’ volte ho scritto ha un animo d’altri tempi e i suoi racconti sono impregnati di sentimenti puri rarissimi nel mondo di oggi; leggerli e’ un toccasana per la mente e il cuore.
Vola alto Oxford, non ti fermare. Osserva col tuo sguardo profondo cio’ che ti circonda, pronto ad esserci, sempre.
“Esistono due cardini portanti nel vero amore, il bacio e l’abbraccio. Entrambi fatti all’improvviso, entrambi con dolcezza e calore. Ma quando un bacio arriva, ne cogli la vera essenza appena le labbra si incontrano. Viene trasmesso quello che è uno dei sentimenti più forti, quello che ci da la voglia di sognare, ancora, e per sempre. Ci trasmette l’eterno sentimento, puro e vero, ci dà ciò di cui abbiamo bisogno, ci da l’amore.”
LABBRA
Che belle le labbra a forma di cuore, perfette, oppure carnose, chi le ha più sottili, o addirittura chi le ha completamente rifatte. Il loro movimento quando la bocca fa uscire le parole, o quando sorridono, o sono su di un viso triste. Ma esistono delle labbra, labbra uniche ed ineguagliabili, e sono quelle della persona che si ama. Si, quelle che avvicinandosi alle tue e si sfiorano per la prima volta ti trasmettono un brivido. Che quando ti danno un lieve bacio iniziale ti iniziano a penetrare nella mente, e poi arrivano al cuore passando per l’anima. E la sensazione che senti in quel momento, assaporandole, è quella della delicatezza dei petali di rose, inebrianti, ubriacanti, con un sapore intenso, dolce come il miele più pregiato, il profumo della pelle soffice che le ricopre, la fragranza del sentimento che colpisce la nostra essenza più profonda.
Un viaggio, splendido, nel posto più bello di tutti, nel nostro cuore.
E poi ritornano, dopo il primo lieve bacio iniziale, ad appoggiarsi sulle tue con un brio nuovo, più forte, il bacio appassionato, quello che ti si fonde completamente nell’anima, quello di cui, dopo averne preso uno, non riesci a smettere, come una droga, il sapore della sua bocca che si unisce alla tua, in un gioco di sensi ed emozioni. La mente invasa dal suo viso che ti bacia e soprattutto dall’eccitazione del momento, dall’emotività provata.
Smettere sembra impossibile.
Sguardi intensi che fanno l’amore nella mente.
E ancora le labbra si uniscono e non si staccano più. Labbra che ricorderai per sempre, labbra dal gusto di more, dal profumo di gelsomino e viole, labbra senza imperfezioni, giuste nella dimensione su un viso perfetto, carnose e soavi nello stesso momento.
Indefinibile la colorazione naturale, sconosciuta, sfumature sul rosa, sul rosso, sul rosato. Una tonalità unica, come se fosse una rara pietra preziosa mai vista prima. Labbra che sanno baciare e ti sanno veramente rapire, come non eri mai stato rapito prima. Labbra che non puoi toglierti dalla mente. Che ti perseguitano e ti fanno sussultare il cuore in ogni istante del tuo respiro. Labbra che vorresti sentire sulle tue in ogni istante della giornata. Labbra che ti hanno talmente catturato che sei incatenato a loro, senza via di scampo, e continui a cercarle.
Labbra.
Uniche ed ineguagliabili. Labbra di chi si ama. Labbra, vere Labbra.
Due persone, nate uguali, due ali d’angelo separate, che singolarmente non riuscivano a volare ma quando si abbracciavano e si tenevano per mano riuscivano a fare i voli più belli dell’universo.
Splendenti, entrambe, uniche per certi versi, ma in armonia con la mente ed in sintonia con lo sguardo. La loro luce guidava le loro gesta. Julia era la più taciturna, colei che solo con il suo sorriso parlava, con il suo sguardo si faceva sentire. Le movenze dei suoi capelli emettevano suoni celestiali. Con semplici azioni riusciva a dare soluzioni, ad avvicinare persone lontane, farle sentire nei loro cuori, a chi era triste faceva tornare il sorriso, a chi aveva perso la fede faceva tornare la luce che lo avrebbe guidato.
Così per anni, in armonia con la sorella, nonostante qualche screzio perché normale, ma sempre gioiose insieme. A fare l’albero di Natale giocando allegoricamente con le decorazioni, con i fili d’argento che si lanciavano l’una con l’altra. Dando vita all’albero di Natale ogni anno sempre più bello. Come loro. Luci di mille colori, come i loro sorrisi, palle di Natale incredibilmente belle da lasciar senza fiato, come i loro occhi, un insieme di fantastici pensieri osservando l’albero, come osservando l’insieme dei loro corpi.
Giocare nella neve come bambine, anche se ormai donne, ma giocare senza pensieri, perché non volevano deturpare quei bei momenti con i problemi della vita.
Le stagioni si susseguono. Amori, dolori, racconti reciproci per sostenersi a vicenda.
Julia sempre generosa. Per strada sembrava un angelo guidato dal cielo che fermava un bambino in corsa perché vedeva prima che sarebbe caduto, prendere per mano una vecchietta e fermarla nei suoi passi qualche istante prima che dall’alto cadesse un vaso che la avrebbe colpita, una piccola spinta ad un uomo verso una donna, perché sapeva che era giusto così. Ed infatti le due persone poi si baciavano. Azioni che veramente sembravano di una persona con premonizioni angeliche.
Ed in casa quando si riunivano una grande armonia, voci calde che si raccontavano, che ridevano, che sussurravano melodie incantate di magia e di cuore.
Un giorno durante il sonno qualcosa di nuovo successe.
Nella stanza una luce, un calore che faceva stare talmente bene da sentirsi protetti da qualsiasi cosa. Julia si svegliò e vide nella luce una figura, un angelo, stupendo; gli sorrise e le disse che Dio l’ha guardata per tanti anni, ha seguito le sue gesta quotidiane, evoluzioni fatte di cuore anima e tanto amore.
E Dio ha bisogno di lei, perché ha un compito più importante da darle. E che il suo tempo di vita mortale e terrena era giunto al termine.
Chiunque, avendo tale visione si sarebbe disperato, si sarebbe rattristato, avrebbe pianto. Ma lei, invece, con la gentilezza dell’anima che la contraddistingueva, sorrise.
La mattina dopo aspettò il risveglio della sorella, gemella, uguale, anche lei speciale. Ma Dio aveva scelto Julia. Lei sorrise e disse con la sorella di ciò che era successo. La sorella iniziò a piangere, dolori lancinanti nel cuore, esplosioni nell’anima, senso di debolezza e di svenimento. Lacrime, lacrime vere non bugiarde, ma lacrime nelle quali si leggeva il vero dolore.
Julia le si avvicinò, la guardò intensamente, la abbracciò e le diede un bacio. Uscirono assieme. Julia le disse di non preoccuparsi, che lei non sarebbe mai andata via veramente. Che sarebbe sempre stata in lei, nei ricordi, nel cuore e nell’anima, ed ogni volta che guardava il cielo, doveva cercare Jupiter, e doveva fissarlo. Lei sarebbe stata lì.
Si incamminò nel viale del giardino della casa, improvvisamente calò una fitta nebbia, ed in pochi secondi Julia sparì.
La sorella non piangeva più. In quello stesso momento sentì come se una mano le avesse accarezzato l’anima, come se un soffio di dolcezza e positività le avesse toccato il cuore. E subito capì che Julia era andata via, ma lo spirito viveva in lei.
Da quel giorno, anno dopo anno, il ricordo di Julia sempre era presente. E quando si guardava allo specchio non vedeva più la sua immagine riflessa, ma quella di sua sorella che le sorrideva, che le parlava e che le diceva che sarebbe sempre stata con lei a guidarla in molte scelte con le sensazioni, perché quando si perde nella vita reale qualcuno che fa parte di noi, rimane sempre vivo nel nostro cuore e, diventato angelo, eseguirà i compiti ancora più grandi che Dio gli avrà assegnato, ma si prenderà comunque sempre cura di noi, facendoci capire con intuizioni le strade da prendere Buon Natale Julia, e grazie per essere stata l’angelo della mia vita e che mi seguirai sempre.
Con affetto, tua sorella
Esposizione di Oxford Brogue per una cara amica che mi ha colpito con la sua storia e colpendomi, mi ha mosso a scrivere questo in onore della sorella scomparsa.
Inizia il mio cammino partendo da una terra molto lontana, e avevo come meta Asgard, la terra degli dei, dove avrei scritto il seguito del mio destino.
Passarono mesi, cavalcai incurante delle intemperie. Arrivai a nord. Iniziò a scendere molto la temperatura. Ero preparato. Con grasso da mettere sul corpo e con pellame per proteggermi.
Continuai sulla mia strada. Nonostante le mie cure, il mio fedele destriero mi lasciò, andando con l’anima nei pascoli del cielo. Lo seppellii. Continuai a piedi, in una terra che diventava sempre più ostile. Cominciò a nevicare. Il paesaggio iniziava ad essere una distesa di candida neve. Una visione celestiale. Poi il vento, una tormente, sfiancante, duro e tagliente il suo soffio, quasi volesse sussurrarmi di desistere. Continua. Arrivai in vetta ad una montagna.
Strana cosa: sulla cima della montagna una piccola zona pianeggiante, con al centro un simbolo, senza neve che lo copriva. Mi avvicinai e venni illuminato da una luce che veniva dal cielo. Una frazione di secondo. Poi terminò. Rimasi fermo, immobile, perplesso, sconcertato. Dopo altri pochi minuti un altra luce, come una lama diagonale, e poi il miracolo; divenne dei colori dell’arcobaleno e dirigeva verso l’alto.
Era il Bifrost.
Come misi i piedi sopra venni catapultato in un altra dimensione. Arrivai, e vidi Asgard. Mi accolse il guardiano del portale, Heimdallr. Mi chiese cosa volessi da Asgard, in quanto lui aveva la responsabilità di chi poteva entrare e illuminandone con la luce della sua spada ha visto il mio cuore nobile e per questo mi ha fatto salire. Io risposi che volevo compiere il mio destino ed imparare dagli Dei la storia della vita.
Acconsentì a farmi entrare. Mi indicò la strada è mi diressi dove mi aveva detto.
Entrai in Asgard, maestosa e magnifica.
Persone senza paure e soprattutto serene. Passai in una specie di spiazzo dove c’erano guerrieri che combattevano per allenarsi. Stavo per allontanarmi quando udì qualcosa. Una voce, il sibilo di una lama.
Mi girai. Rimasi incantato. La vidi. Lei.
Unica nel suo genere, capelli luminosi come l’oro, pelle del colore della Luna che brilla nel manto nero tagliandolo con il suo bagliore come fendenti, possente come una Valchiria, abile come una pantera e sinuosa come una dea. Era Sif, sorella di Heimdallr che mi aveva accolto, donna che godeva delle grazie di Thor, innamorati.
E io sentii qualcosa dentro. Mi soffermai qualche istante e poi venni svegliato dal mio stato di magia da una forte manata sulla schiena. Era il grande Volstagg che con la sua forte risata mi dava il benvenuto. Venni accolto e portato nella sala del trono, davanti al possente Odino.
Parlammo, spiegai il perché del mio percorso, difficile, tumultuoso, tempestoso, triste, ma con la luce del cuore che mi guidava, e che volevo rimanere a combattere con chi per me era la guida dell’universo, con gli uomini più saggi e potenti, con tutta Asgard. Odino si alzò, mi si avvicino’, mi sussurro alcune parole all’orecchio e poi a voce alta disse che da oggi il mio nome sarebbe stato Fandral e che sarei stato addestrato alla spada per diventare il più abile e forte spadaccino degno del cuore che ho dentro.
Mi diedero un alloggio stupendo, mi diedero nuovi vestiti. Cenai al loro banchetto. Ma una cosa mi faceva tremare, si, tremare l’anima e sussultare il cuore. Sif. Era bellissima. Suadente, lucente anche durante il banchetto. Elegante nelle movenze, suadente nella voce. Ed i suoi occhi, di un colore misto tra verde azzurro e grigio. E che cambiavano in base al raggio di luce che li accarezzavano. Ed i suoi capelli, di un biondo misto all’ocra, mossi, ed ogni volta che si girava sembrava danzassero davanti al suo viso per poi ricomporsi in un inchino alla sua pelle così brillante.
Non capivo se stavo mangiando per nutrire il mio corpo, o se stessi nutrendomi l’anima ed il cuore con la sua presenza.
Finita la cena andai a dormire. Ma il sonno tardava. Mi alzai ed andai alla finestra, guardai il cielo, c’erano tre lune, tutte sorridenti, ed un firmamento da mille ed una notte. I pensieri volavano. E le stelle al mio sguardo sembravano disegnare il volto di Sif nel nero manto dell’universo.
La mattina seguente inizia ad imparare l’antica arte della spada. Nello spiazzo esterno ci si allenava assieme agli altri, ognuno a combattere con altri per migliorare. Sif era lì, con una lancia dorata e luccicante, con le sue vesti di battaglia che esaltavano ancor di più la sua bellezza, i capelli legati a coda di cavallo, stivali in pelle marrone con rinforzi d’argento. Una armatura fatta a sua immagine, su di lei. E le sue movenze da guerriera erano una danza, come se le spade, frecce e lance fossero la musica o le note sulle quali lei sinuosamente si muoveva.
La sua grinta, unica.
Passarono giorni, poi mesi. Divenni imbattibile con la spada. Fandral l’abile spadaccino.
Poi venne un giorno, uno di una battaglia, uno che avrebbe cambiato la mia vita, che segnò per sempre il mio destino, il mio futuro.
Venimmo adunati, una manciata di uomini, circa 100, guidati da Odino, Thor, Loki, Volstagg, Sif ed io. Si doveva andare su un altro mondo, uno dei 9 facenti parte dell’albero dell’universo, dove una civiltà malefica voleva conquistare quel pianeta. Venne aperto il Bifrost ed in un lampo arrivammo la, già armati, in mezzo alla battaglia, subito a combattere. I giganti di ghiaccio, abitanti del pianeta Jotunheim, volevano far loro tutti i 9 mondi.
Creature malefiche senza anima, ingorde solo di potere, di morte, di schiavi, di malvagità.
Thor sembrava un leone, da solo contro decine di uomini. Con il suo sacro martello Mjöllnir roteante nelle sue mani, raccogliendo dal cielo la forza dei lampi, sprigionava colpi devastanti.
Odino con il suo scettro l’ottava come un possente orso, dando colpi mortali ad ogni movimento. Poi gli altri, come me, a sfidare contemporaneamente più nemici, e lei, Sif, faceva balzi talmente possenti che sembravano di una danza antica, con lo scudo raffigurante la fortezza celeste si difendeva, e con la sua lancia dorata uccideva. Aveva segni di tagli, superficiali, ma incurante combatteva come una pantera tra tigri. Iniziava a scendere una lieve foschia, forse creata dai giganti di ghiaccio.
D’improvviso sentimmo un boato e ci girammo; Thor diede un forte colpo a terra con il suo Mjöllnir, e successivamente mise il suo ginocchio a terra. Sembrava stremato, segnato dai colpi inferti e ricevuti. Stava per essere colpito da lance nemiche. Il nostro grido, la nostra corsa a proteggerlo, e lei, Sif, come una furia, si faceva largo facendo cadere i nemici come fuscelli, arrivò per prima da lui, feroce come poche volte vista, ma senza perdere la sua bellezza, iniziò a colpire e tese la mano al suo amato. Si guardarono, con uno di quegli sguardi che solo chi li ha provati li può capire, e lui si alzò, ricaricato.
Noi a loro difesa, pronti a tutto.
Odino lasciato in disparte perché lui, nella sua grande conoscenza, sapeva già l’esito di questo destino.
Riprendemmo la lotta singola. I giganti quasi sopraffatti e noi, anche se stanchi, esausti, e feriti, ancora in forza per vincere.
Poi, l’imprevisto, qualcosa a volte può succedere, il dolore. Un colpo, nonostante la mia abilità e destrezza, venni colpito. Non una ferita mortale, ma una lancia mi aveva trapassato la coscia e caddi.
Stavano arrivando i pochi giganti rimasti contro di me. Ebbi per la prima volta paura, che non avevo mai provato nemmeno quando collassai per il freddo in mezzo ai ghiacci eterni e rischiai di morire.
Chiusi gli occhi aspettando il colpo finale.
Un rumore di un colpo parato. Assordante. Una voce che chiamava il mio nome, aprii gli occhi. Era lei, Sif, che con il suo scudo riparò sia lei che me, e allora presi energia e mi rialzai. Lei mi sorrise, o fu la mia impressione, e continuò a parlarmi, a starmi a fianco, a combattere con me. A breve tutto finì, i giganti scapparono, e noi gioimmo per la vittoria.
Il Bifrost venne aperto e tornammo. Venimmo curati, accolti sempre come grandi guerrieri vincitori.
Da quel giorno cambiai, giurai che per qualsiasi cosa io avrei dato la vita per lei, per colei che salvò la mia vita. Un amore che non potrà mai essere corrisposto, ma comunque felice per lei, per Thor. E da quel giorno, in tante altre battaglie, presi colpi per evitare che lei venisse ferita, moglie del mio futuro sovrano. E la nostra amicizia fu eterna, come la leggenda della città di Asgard. Mai finita
Ad un certo punto ho voluto lasciare tutto. Ho iniziato a girare il mondo che non conoscevo. Ho visto posti dove regnava solo il buio, ed altri in cui la luce risplendeva accecante.
Un giorno mi fermai in mezzo alla natura; un paese fatto di favole e di disegni, si perché era talmente bello da sembrare inventato
Li ho visto cambiare la mia vita, ritrovare ciò che avevo smarrito all’alba dei tempi, quello che stavo cercando. Una nuova storia da raccontare.
Era un posto come detto fantastico. Accogliente. La gente sorrideva quando la si incontrava, e salutava con grande cuore.
Nella piazza del villaggio, arricchita di aiuole dai mille fiori, c’era una statua raffigurante due ragazzi, uguali come due gocce d’acqua, con un braccio alzato al cielo e l’indice disteso
E sotto la statua una targa che recava queste parole:
-Dal nulla come per magia la forze strepitosa della loro energia.
Ha commosso molti cuori e ha fatto passare mille dolori.Sono arrivati da una terra senza confini portando la loro musica con i loro destini.Hanno dato emozioni e coraggio a chi il dolore è la tristezza aveva chiuso il viaggio.Ora sono andati via proseguendo il loro glorioso cammino perché chi è umile ed onesto otterrà un posto nell’Olimpo divino.
In ricordo di Jack e Diego che hanno ridato fede alla nostra misera cittadina-
Allora dopo aver sentito un brivido fulmineo nel mio corpo divenni curioso e mi iniziai ad informare.
Entrai nel bar del paese, bello, fastoso, accogliente, luminoso. Mi sedetti ed ordinai da bere, un ottimo bicchiere di latte e menta. Chiesi alla cameriera chi fossero i due giovani rappresentati nella statua. Mi disse che erano due ragazzi capitati per caso nella loro cittadina, fratelli gemelli, venuti con la loro madre e altri familiari, perché stanchi di un passato infame. E qui hanno trovato la loro via ed hanno insegnato a tutti noi cosa vuol dire usare il cuore mixato con l’anima per amare e per cantare.
Stupito chiesi dove adesso fossero, e lei mi rispose che erano andati via, acclamati come eroi e salutati come guerrieri, due anime, un solo corpo, due eroi, un unico cuore, e che avevano raggiunto finalmente la tappa definitiva del loro cammino, la gloria ed il successo, in una grande metropoli europea. Forse in Italia.
La cosa mi incuriosì ancora di più, e per questo iniziai a prendere appunti sul mio taccuino, ormai pieno di polvere perché chiuso da troppo tempo, ma finalmente riaperto perché la mia anima stava rimettendosi in moto all’echeggiare continuo delle frasi scritte sulla targa della statua……
Scavai nel passato, nella loro vita, raccogliendo più notizie che potessi. Ed iniziai a scrivere la loro storia, una di quelle che ti lasciano il segno nel cuore, che senza foto ti danno le immagini vive e piene di colore nella mente, una che ti tocca l’anima facendoti venire i brividi di gioia.
La passione per la musica era già dentro loro prima di nascere, come se la Musa Euterpe o il Dio Apollo avessero messo dentro la loro anima la fiamma del suono e della melodia.
Crescendo hanno imparato in maniera semplice, usando il cuore, che la musica è una passione che esce da dentro, da ciò che di più profondo e bello abbiamo, i sentimenti veri.
Il loro cammino, nel tempo, li ha fatti guerrieri, si, guerrieri di vita nonostante la giovane età, perchè purtroppo le battaglie più forti sono state combattute contro invidia, perfidia, malignità e speculazione. La loro strada era fatta in primo luogo di passione per il canto, per dare conforto ed emozioni a chi li sentiva, per rallegrare vite che di allegro non avevano più niente, ed in secondo luogo per poter avere una ricompensa che potesse dare loro ciò di cui sfamarsi e da poter continuare il cammino per migliorarsi.
Persone a loro accanto sono poi state allontanate in quanto piene di ingordigia di ricchezza e non di amore e sentimenti. Continuando il percorso del destino sono arrivati in questa cittadina, all’epoca frenetica di ritmi lavorativi folli, non curanti della vita altrui, dove i sentimenti ed i colori erano quasi dimenticati per dare spazio alla scontrosità di caratteri diventati quasi incivili.
Si fermarono e decisero di provare a trasmettere il calore che nelle anime di tutte queste persone si era quasi completamente spento. Vedevano la luce della speranza negli occhi dei giovani pargoli che giocavano spensierati incuranti di ciò che li circondava. La loro gentilezza e la loro voce era già una sferzata di colore in quel grigiore di vite, il loro modo di porsi per poter chiedere lo spazio per poter cantare era qualcosa che la gente si era dimenticata, l’educazione.
L’arrogante proprietario del più grosso locale della città, quando i due giovani si presentarono ed espressero la richiesta di potersi esibire presso di lui, si mise a ridere follemente, perchè abituato a gestire complessi e band musicanti un anima ben diversa dalla loro. Ma poi, visto che le frasi cominciavano a diventare silenzi, si udì una intonazione, come un fulmine a ciel sereno, l’inizio di una melodia senza musica ma fatta solo di parole armoniose, intonate, calde, sensuali, che come un pugno cercavano di colpire dolcemente diventando una carezza a contatto con l’anima. E poi una seconda voce, un altra armonia, un duetto, qualcosa che fece smettere di respirare per una frazione di secondo lo scontroso signore.
Aveva un telefono in mano; gli cadde. La bocca non si muoveva più, rimasta spalancata, e per la prima volta dopo anni di freddo e di dolore, iniziò a sentire invadere il suo corpo da un qualcosa, una sensazione nuova, energizzante, che stava iniziando a scaldare l’anima, a far scalpitare il cuore che inizia di nuovo a far pulsare quel sangue che da vita nuova, a sentire il profumo delle parole, a sentire i colori delle note.
E fu in quel preciso momento che si mosse, traballando quasi incespicando, mettendo le mani alla sedia vicino a lui per sorreggersi, e piangendo.
Il silenzio.
Niente più suoni, solo un pianto.
I due ragazzi avevano forse già capito. L’uomo alzo lo sguardo e promise che avrebbe fatto tutto ciò che poteva essere in suo potere per organizzare il più bell’evento degli ultimi vent’anni nel suo locale, perchè dopo tanto dolore e bramosia di guadagno, era riuscito a vivere nella sua mente la fotografia dei bei tempi passati, quando tutto era colorato, quando le persone si salutavano sorridendo incrociandosi per strada, quando ancora si faceva l’amore e non il sesso.
L’uomo rispettò la sua parola, a distanza di un mese, dopo aver pubblicizzato l’evento in tutta la cittadina, aveva rimodernato anche il suo locale dipingendolo con i colori della sua nuova anima, dando le luci della gioia e della felicità all’ambiente.
Finalmente la sera tanto attesa.
Il locale era però purtroppo semi deserto, poche persone, indaffarate a telefonare o usare i computer o altro ancora, senza la giusta attenzione per ciò che stava per accadere. I due giovani rassicurarono l’uomo, e gli dissero che doveva avere fede in ciò che muove i cuori delle persone verso l’amore, ovvero le emozioni.
Iniziarono, e come si udirono le prime note della musica e le prime intonazioni, tutti i pochi presenti rimasero incantati. Finì la prima canzone, nessun applauso, ma meraviglia, perché chi era presente non riusciva a muovere più il corpo, come se fosse bloccato, per ciò che iniziavano a provare dentro. Poi una seconda canzone, gli occhi della gente lucidi, commossi, felici.
Il proprietario fece un gesto inaspettato, strano ma audace nello stesso tempo, spalancò le porte del locale e spostò le casse musicali all’esterno. E li, iniziata un altra canzone, iniziò il miracolo. Chi sentiva la musicalità delle anime di Jack e Diego, non poteva che continuare a sentirle, perché davano loro i colori della vita. Pian piano il locale iniziò a riempirsi e le genti a diventare calde nello spirito e nel cuore, intravedendo i propri nuovi colori.
Da lì, serata dopo serata, canzoni dopo canzoni, emozioni, lacrime, colori, la cittadina iniziò a trasformarsi, a diventare ciò che ora è un posto da sogno, con cordialità, con benevolenza, educazione.
E la loro ultima canzone, realizzata per descrivere le lotte, la vita, la forza di superarle, sia loro che della cittadinanza, venne intitolata Due Anime eroi, si perché senza di loro, la cittadina sarebbe rimasta nel grigiore di una vita ormai infelice e piena di desolazione.
Il cammino dei giovani riprese; nel locale vennero altri cantanti, non con anime scure, ma con la luce dentro, che poteva lontanamente ricordare quella dei due fratelli.
La strada di Jack e Diego era ancora lunga, sicuramente fatta ancora di difficoltà, ma affrontata sempre con ciò che fa di loro due persone speciali, uniche, ineguagliabili: la semplicità e l’amore.
Storie, leggende, racconti, fantasie, ricordi, reminiscenze….tutto crea l’atmosfera nello scrivere e soprattutto nel coinvolgere il lettore. E questa che sto per narrare è una storia, vissuta realmente o solo di fantasia, poco importa, ma sicuramente è che rileggendola mi ha travolto l’anima…….
Eravamo accampati con la nostra legione in mezzo al nulla, luna oscurata, pioggia e vento. Una legione composta da 10.000 uomini, valorosi, coraggiosi, affamati……molti feriti, altri in fin di vita. A morire in una terra che non ci apparteneva.
Battaglie su battaglie, sconfitte, vittorie, amici e nemici lasciati sulla verde erba rigogliosa dopo le piogge di Aprile. Ora siamo rimasti in 3.000 uomini, in quanto Roma ne aveva richiamati la maggior parte, e altri purtroppo erano quelli che non fecero più ritorno, caduti da gloriosi eroi. Il tempo passava, come le stagioni. La barba incolta mi faceva capire lo scandire inesorabile dei mesi che come fulmini passavano.
Arrivammo finalmente ad un nostro avamposto. Fummo accolti non come soldati, ma come fratelli.
Andai nella stanza assegnatami, non da semplice soldato ma da Tribuno, comandante di una parte dei soldati rimasti. A breve venni chiamato nella sala delle strategie, dove generali, comandanti e gregari studiavano i vari piani di azione per poter rimanere in vita più che conquistare.
Incontrai, dopo tanti anni che non lo vedevo, Marco Aurelio Cracco, cresciuto con me in Roma, addestrato da uno dei migliori, Augusto Senna, gran centurione. Ci abbracciammo e ci scesero alcune lacrime.
Mi chiamarono poi per attirare la mia attenzione “Tribuno Tiberio Domiziano possiamo iniziare?”…Io sorrisi, mi scusai, e mi misi assieme a loro
Ragionammo tutto il pomeriggio. Poi finalmente il banchetto serale. Erano molte lune che non cenavamo così.
Il giorno dopo preparammo tutto ciò che si era detto il giorno prima.
Ci volle tempo, giorni, per mettere a punto molte cose. Poi partimmo, 2.500 uomini altri rimasero nella fortezza; sarebbe stato un viaggio lungo, ma non pensavo così triste per la conclusione.
Dopo circa 9 giorni di marcia arrivammo alla nostra destinazione. Radure verdi, foreste, montagne. Cacciagione e selvaggina per poterci sfamare, acqua di sorgente per dissetarci. Sembrava tutto perfetto, anche troppo.
Quella notte non riuscivo a dormire, avevo incubi reali, presagi di morte, dolori atroci. Mi alzai e mi misi a guardare il cielo, una meravigliosa Luna piena, che illuminava la distesa delle valli dove eravamo. Sembrava mi guardasse e piangesse, come per ricordarmi così, prima della mia morte.
Brividi di freddo e torpore mi assalirono, tornai in tenda e cercai di dormire almeno qualche ora.
Il risveglio non fu facile visto la travagliata notte che avevo passato
Ad un certo punto, un nostro soldato di guardia, iniziò a suonare la tromba d’allarme. Un drappello di uomini a cavallo, recanti bandiera con i simboli romani, correva verso di noi come trasportati dal vento del nord, forte, rapido, gelido.
Scesero e uno di loro, sporco di fango, sangue e fatica, venne verso di me. Era l’amico fraterno Marco Aurelio. Caduti in una imboscata durante l’attraversamento di una foresta, soldati morti, decimati dalle mille frecce scoccate dagli archi dei nemici, appostati come falchi al buio pronti a ghermire la preda.
Ci disse che migliaia di uomini stavano marciando verso il nostro accampamento
Non ebbi esitazione. Dissi a tutti di prepararsi per affrontare un nemico molto forte, che voleva respingere le nostre resistenze, che voleva far vedere la sua supremazia su Roma, e che scherniva i soldati romani definendoli burattini, non guerrieri, ma femmine che piangono morendo in battaglia chiedendo pietà per la vita. Aggiunsi che, morire in battaglia, è un onore riservato a pochi veri uomini, riservato agli eroi, ed io, se fosse stata la mia ora, sarei morto senza paura ma con negli occhi lo sguardo del coraggio e che tutti noi dovevamo incutere timore durante il combattimento ai nostri avversari dimostrando loro come muore un Romano, non come un burattino, ma come un possente e valoroso soldato che ha fede negli ideali per i quali ha prestato giuramento.
Sentii un coro di voci urlanti possedute dalla forza degli Dei che osannava il nome di Roma, dei Tribuni, ed il mio nome, Tiberio. Nei loro occhi fiamme, fuoco, voglia di vincere anche oltre la morte. Erano i nostri uomini, carichi e trepidanti, pronti a far capire al nemico il proprio onore contro chi onore non ne ha.
Non ci volle molto per schierarci, pronti, forti, ben armati e corazzati con i nostri grandi scudi rettangolari con effigi di Leoni e di Aquile; lance, archi, frecce, spade, cavalli sellati e vestiti a battaglia. Tutto pronto. Con gli altri Tribuni e con l’amico Marco Aurelio studiammo un piano, una strategia, per poter difendere le nostre vite e prendere noi le loro.
Ci dividemmo, truppe a piedi appostate all’inizio della radura, i migliori con gli archi, circa 500, suddivisi a metà nelle due foreste ai lati della verde distesa che di li a breve sarebbe stata insanguinata. Io guidavo con Marco Aurelio le truppe a cavallo.
Iniziò a calare la sera, le nubi all’orizzonte avevano l’odore di pioggia trasportata dal vento. Passarono minuti che sembravano ore, qualche goccia, poi una lieve pioggia, sottile, tagliente come lame, gocce non fredde, ma tiepide, come se volessero i nostri Dei darci calore anche nell’anima.
Udimmo suoni provenire in lontananza, ombre, rumori di tamburi, cori che osannavano la loro vittoria, insulti alle nostre donne e alle nostre divinità.
Poi il silenzio. Erano fermi, immobili, davanti a noi, distanti ma non troppo, schierati come pali in perfetta geometria. Davanti a loro 5 uomini a cavallo, vestiti di armature luccicanti, forse anche più delle nostre, con scudi rotondi, grandi, con disegni di animali bellissimi. Uno dei cinque, quelli in centro, fece avanzare di una incollatura il suo cavallo, volse lo sguardo prima a destra urlando un comando, poi a sinistra urlando un altro ordine. Sguainò la sua spada, luminosa anch’essa, e la additò verso di noi, e i fanti iniziarono ad avanzare. Ad un certo punto si aprirono in mezzo, e da dietro centinaia di uomini a cavallo si fecero largo avanzando velocemente. Non avevano spade in mano, ma archi, e iniziarono a scoccare frecce come fulmini che vogliono colpire folgorando. Ordinammo alle truppe di serrare i ranghi, di unire gli scudi a testuggine. Appena in tempo; le frecce si schiantarono sulle nostre difese. Alcune passarono, qualche uomo cadde, ferito, o peggio ancora, morto. Fu il nostro momento. Venne ordinato ai nostri arcieri nascosti all’interno della foresta di scoccare. Non si udiva più il rumore della pioggia, ne le urla dei soldati nemici, ma il forte sibilo delle 500 frecce scoccate, riscoccate, e lanciate ancora, con una velocità indescrivibile. Tanto che non si vedeva più il buio del cielo ma il colore del legno con le luccicanti punte mortali che volavano. E colpirono, cavalli innocenti caduti morti, soldati agonizzanti, molti salvati dai loro scudi ma altri senza vita a terra.. Ma non si fermarono; venne impartito dal loro comandante un altro ordine e altri fanti, numerosi, avanzarono in sostegno; la loro cavalleria veniva questa volta dai lati, ma non con archi e frecce, sta volta con le spade.
Allora impartimmo anche noi i nostri ordini. Andammo tutti in battaglia. Armati di voglia di gloria, di vita e di morte nello stesso momento, di tanta paura ma ancor di più di coraggio, io e Marco Aurelio con le nostre spade, amiche di mille battaglie, parte del nostro corpo, taglienti come rasoi e leggiadre come una piuma, al galoppo insieme ai nostri valorosi uomini.
I cavalli annaspavano e affannavano per la foga con cui li spronavamo a correre. Poi lo scontro. Colpi parati, colpi inferti, segni sullo scudo. Dolori di ferite lievi, l’odore del fango, dell’acqua, del sangue, della morte. Non si risparmiavano colpi. Frecce nemiche che mi sfioravano tagliandomi i capelli, lambendomi la pelle del viso. Una colpì il mio pennacchio, mi fece male, perché la sua forza mi diede uno strappo al collo ove l’elmo romano era legato con ferro e cuoio. Ebbi un attimo di sbandamento e mi colpirono. Caddi da cavallo. Marco Aurelio mi vide a terra, si fermò, scese anche lui a combattere al mio fianco. Fanti e legionari del nostro rango arrivarono veloci a combattere vicini. I nemici erano tanti, ma non avevamo più paura, ma solo tanta adrenalina data dal sapore del sangue giunto alla nostra bocca, al naso, come una essenza che ci poteva drogare, come lupi assatanati pronti ad azzannare la preda. E combattemmo senza timore.
Non so come successe ma ad un certo punto della battaglia ci trovammo d’innanzi ai 5 comandanti nemici; anche loro ormai scesi dai loro cavalli, anche loro segnati dalla battaglia. Io, Marco Aurelio e i nostri uomini affrontammo in uno duro conflitto loro, ed i loro fedeli combattenti. Fu un epico scontro, del quale non dimenticherò mai memoria, lungo, cruento, doloroso, triste.
Non potevamo sapere se saremmo sopravvissuti noi o loro, ma con impeto mai eguagliato, andammo avanti. Perdite di uomini da entrambi il lati. Tre dei cinque comandanti caddero. Io e Marco eravamo innanzi ai due più forti, il loro primo comandante e il suo fidato compagno, come eravamo noi due. Scintille delle nostre lame illuminavano il buio; le nostre urla confuse con le loro, per fare uscire tutta la grinta e la forza che avevamo. Io stavo lottando con il mio pari di grado. Marco con l’altro. Vidi che il mio fraterno amico stava avendo la meglio sul suo nemico, lo aveva disarmato e stava per colpirlo. Lo fece, colpito diritto nello stomaco. La sua spada lo aveva passato da parte a parte. Il sangue all’uomo usciva anche dalla bocca. Guardò Marco, e con un ultimo rimasuglio di vita, afferrò un coltello che aveva nella sua armatura e lo infilò nel collo del mio fraterno amico. Io urlai, impotente, la rabbia mi salì da dentro trasformando i miei occhi in quelli di un feroce assassino senza pietà. L’uomo dinnanzi a me vide il mio cambiamento. Divenni più combattivo, più adrenalinico, colpii, colpii ancora, sempre più forte, mentre l’altro indietreggiava sotto i miei fendenti. Impaurito, quasi stremato, fino a che cadde, lo trafissi, una, due, tre volte. Spirò.
I nostri uomini stavano avendo la meglio sul nemico, senza più comandanti che Iniziò ad indietreggiare fino a ritirarsi, sconfitto; ma la nostra vittoria, a che prezzo………..per Roma, per gli Dei…….
Corsi da chi non respirava più, le mie lacrime erano sporche del mio sangue, la mia voce straziata dal dolore, il corpo mi tremava. Presi Marco Aurelio sperando che fosse ancora vivo, ma il suo sangue mi riempì le mani, le gambe, il viso e la mia barba. Lo strinsi a me come un fratello stringerebbe il proprio caduto in battaglia, i miei uomini che volevano staccarmi senza riuscirci, Marco Aurelio, amico di una vita fatta di sacrifici, di lotte, di gioie e di dolori, combattente, eroe valoroso, morto…… e io continuavo ad urlare, a piangere a sentire il suo sangue, ad urlare agli Dei chiedendo perché lui e non me; con le mie ultime forze stremato dalla battaglia, dalla tragedia, dal dolore, lo sollevai, lo portai via da li, lo misi sul suo cavallo, lo riportai al campo.
Gli diedi giusta sepoltura, con gli onori come se fosse un Cesare, un Dio; era un uomo, con gli ideali di Roma nel cuore, con la sua fede, con il suo cuore, con la paura ed il coraggio sempre a lottare, ma senza mai tirarsi indietro da niente. Marco Aurelio, una parte della mia anima, del mio cuore, della mia vita. Che possa riposare in pace.
Dopo quel cruento giorno, fatto di morte, dolore, atroce dolore per la mia persona, le battaglie diminuirono, io combattevo sempre audacemente, in prima linea, con il ricordo di Marco dentro di me. Poi un giorno arrivò l’ordine di rientrare in patria.
Arrivati a Roma, dopo vari convenevoli, ci riunimmo tra tutti i vari comandanti. Fu lunga la giornata. Ma poi alla fine, ebbi il mio compenso. Rimanere a Roma, ad istruire i nuovi giovani, legionari, fanti, centurioni. La mia esperienza era grande, come il mio dolore. Fino al giorno in cui, all’età di 47 anni, incontrai l’amore della mia vita, una donna che già conoscevo dai tempi passati, ma che non avevo mai avuto il coraggio di guardare con gli occhi dell’amore, forse perché prima ero troppo intento a voler andare via a combattere, ma adesso, che avevo capito quanto vale una vita, potevo provare a dimostrarle il mio amore.
Fu una vita felice, tranquilla, dentro le mura di Roma, con i ricordi di Marco nel cuore e nell’anima, sognandolo la notte con il suo sorriso, come quando eravamo ragazzi, scherzando e facendo goliardie.
Ora con la saggezza di vecchio padre e marito, capisco quanto vale una vita, cosa fa veramente male e cosa è superficiale, quanto vale una lacrima, un dolore, una gioia, la felicità, l’armonia con l’universo.
E tramando questo sapere ai piccoli giovani fanciulli romani che vengono a sentire i miei racconti di battaglie del tempo passato, agitando nell’aree le loro spade di legno, i loro scudi fatti di leggero cuoio, immedesimandosi nei soldati che duellavano per un ideale, ideale che è una fede, un giuramento, una verità, come l’amore, forte, sincero, rispettoso e soprattutto proveniente dal cuore e dall’anima come il nostro credo in roma.
Quel giorno era molto caldo, e decisi di andare in spiaggia. Mi recai a Lummus Park, con la sua sabbia portata dalle Bahamas, corre parallela a Ocean Drive (in corrispondenza tra la sesta e la 14 esima strada) ed è la spiaggia principale di South Beach, il posto migliore per chi è alla ricerca di intrattenimento e abbronzatura. In qualsiasi giorno della settimana, la vita non manca, dalle modelle seminude agghindate per un servizio fotografico (il topless qui è legale), ai fanatici dell’abbronzatura e una sfilza di addominali scolpiti.
Mi misi comodo, un po’ in imbarazzo per non essere così scolpito e giovane, ma felice di godermi un altro giorno di piena vita. Iniziai a rilassarmi, scrivendo un altro mio racconto. Scrutavo la gente, sorridente, gioiosa, chi correva e si tuffava nell’oceano, i bagnini, creati nel corpo dalla mano di Michelangelo, che erano sulle loro postazioni a vedere che tutto procedesse regolarmente. Posizionai meglio i miei vecchi e usurati occhiali da sole, un vecchissimo modello di Rayban che mi teneva compagnia fin dagli anni 70. Mi misi il cappello di paglia, che era una via di mezzo tra un modello Borsalino ed un modello country, ingiallito dal tempo, ma tenuto maniacalmente perché era un ricordo stupendo della mia vita, lo misi perché il sole era diventato insopportabile.
Cercai di sistemarmi all’ombra del mio ombrellone.
Ripresi a mettere i miei pensieri sulla carta. Pensieri molto lontani, ricordi, gioie e tristezze. Ma parte di una vita che fu. Chiusi gli occhi e ricordai la spiaggia in cui ero, quando nella mia giovinezza venivo in compagnia di chi oggi non c’è più, persone diverse, atteggiamenti diversi. Ci si salutava con intensità non con superficialità e falsi sorrisi. Ci si aggregava, si parlava, si rideva. Si provavano valori veri. I bambini giocavano con la sabbia. Facevano castelli e costruzioni bellissime.
Ricordo una famiglia, lei donna distinta, i suoi figli, un bambino ed una bambina, solari, piccoli, ma molto vivaci. Non vidi il marito. Ma non ci detti peso. La donna era molto magra, avrà avuto circa 38/40 anni al massimo ed i ragazzi avranno avuto all’incirca 5/7 anni
Aveva i capelli lunghi e leggermente mossi. Madre premurosa, correva dietro ai figli per mettere loro la crema protettiva. Scenetta divertente con i bambini che si burlavano di lei ridendo e continuando a sfuggirle.
Ripresi a scrivere. Descrizioni fantastiche come a me piace fare. Prolisso a volte nella stesura dei pensieri per dare al meglio l’immagine reale, per travolgere il lettore e proiettarlo nella scena descritta.
Passarono circa 20 minuti, e vidi il ragazzino chiedere alla madre qualcosa, la madre si guardò in giro, guardando anche me, e gli rispose qualcosa. A breve vidi il pargolo venire vicino a me. Mi sorrise e mi chiese come mai avevo un cappello così buffo. Io gli sorrisi guardando quegli occhi così genuini, innocenti, sinceri, che avevo all’interno i segni di una anima pura. Gli risposi che per la mia epoca era un berretto molto comune ma che oggi i giovani bricconcelli come lui mettevano berretti più tecnologici, con immagini dei Miami Dolphins, con visiere colorate e altro ancora. Lui si mise a ridere a crepapelle, mettendomi anche un pochino in imbarazzo, ma ero felice di aver dato un po’ di sorriso ad un bambino con capelli biondi come un angelo.
La sorellina sentendolo ridere si avvicinò anch’essa a me. Mi toccò una spalla e con parole semplici date dalla sua giovanissima età mi chiese cosa stessi facendo. La guardai nel suo splendido costumino due pezzi, vivace e colorato, lei con capelli lunghi e castani con le treccine che la facevano apparire ancora più simpatica, e le risposi che stavo scrivendo un racconto.
La madre, che stava leggendo un libro, non sentendo più il rumore dei propri figli vicino, si alzò dallo sdraio e si girò come se già sapesse dove fossero. Li chiamò a voce alta con tono di rimprovero, ma i due pargoli non mostravano alcuna intenzione di ascoltarla e di andare da lei.
Allora venne da me. Chiese scusa del disturbo che mi potevano avere arrecato i suoi figlia, e mi fissò. Vide nelle mie mani fogli scritti, nella borsa a terra libri dei quali però non riusciva a leggere il titolo, e la mia figura, avanti nell’età e segnata dal tempo.
Si presentò. Io le dissi il mio vero nome; iniziammo a chiacchierare. Intanto nella mia mente portavo avanti ricordi del passato, e li confrontavo con il presente. Lei mi disse, nel continuare a farci compagnia con parole gentili e posate, che era separata da poco e che era spesso triste. Per combattere questo malessere aveva dovuto sostenere sedute mediche che l’avevano aiutata, prendeva alcuni medicinali, ma soprattutto leggeva per distrarre il pensiero.
I due bambini erano sempre lì, avevo dato loro alcuni fogli e delle matite e loro disegnavano come fanno i bambini.
La donna mi disse che ultimamente aveva letto molto e le piacevano i libri di racconti di uno scrittore che non aveva mai letto, ma che trasmetteva sulla carta qualcosa di molto sentito. Mi disse che si chiamava Oxford Brouge. Io la guardai quasi incredulo, e mi misi a ridere. Lei sorpresa, pensando le mancassi di rispetto, si irrigidì quasi offesa. E mi disse perché quella risata, se pensavo qualcosa dovevo dirglielo e non schernirla con una risata.
Con il mio sorriso in volto le dissi che non stavo ridendo per lei o per ciò che mi aveva detto ma perché conoscevo quello scrittore.
Lei allora si tranquillizzò e mi chiese come facevo a conoscerlo, forse perché anche lei era, signore mio, uno scrittore? Allora, difficile da dire e da spiegare, come se fosse una barzelletta, le dissi che il mio nome d’arte era Oxford Brouge e quello scrittore ero io. Lei si mise a ridere, come se fosse uno scherzo per fare colpo su di lei o altro. E mi disse di non prenderla in giro. Sempre sorridendo entrambi, le dissi che non era un tentativo di flirtare con lei, ma era la verità. Per convincerla le dissi di attendere alcuni secondi. Mi chinai ed estrassi dalla mia borsa, in pelle scolorita anch’essa per l’età, un contratto dove era scritto che tale casa editrice stipulava il contratto con me in arte Oxford Brouge.
La donna arrossì quasi mortificata, si scusò, sia per non avermi creduto, sia per il disturbo dei suoi due pargoli, e mi chiese se avessi potuto autografare il libro che stava leggendo, l’ultimo da me scritto, che si intitolava ” la vita vista dagli occhi della gente: riflessioni di giorni passati”.
Risposi che ne ero onorato. Fatto questo e continuando a chiacchierare e facendo sorridere anche i due pargoli, le dissi che ora era giunto il momento per me di rientrare a casa, ci salutammo, e le promisi che avrei scritto il mio prossimo racconto su di lei, e sui suoi adorabili figli. Le scese una lacrima di commozione sul viso che nonostante la giovane età, mostrava ai miei occhi i segni del cuore e del dolore che aveva passato.
Si allontanò e i suoi due figli, tenuti da lei per mano, continuavano a salutarmi con la manina libera sorridendomi.
Il sunset era arrivato, di un colore rosso fuoco, che faceva dell’orizzonte un quadro bellissimo. Presi le mie cose e mi incamminai verso casa. Pensai ai vecchi tempi passati, ai tempi moderni. Pochi erano i bambini come loro a non avere ancora il cellulare o gadget elettronici per giocare. E pochi al giorno d’oggi avrebbero avuto il coraggio di parlare con uno sconosciuto di persona, perché abituati ai social. E sorrisi, pensando che esistono ancora persone che danno più valori a libri e ad insegnare giochi ormai dimenticati, piuttosto che passare tempo sui social ed imbottire i figli con elettronica per non essere disturbati.
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