QUESTA CHE STO PER NARRARE E’ UNA STORIA VERA
Storie, leggende, racconti, fantasie, ricordi, reminiscenze….tutto crea l’atmosfera nello scrivere e soprattutto nel coinvolgere il lettore. E questa che sto per narrare è una storia, vissuta realmente o solo di fantasia, poco importa, ma sicuramente è che rileggendola mi ha travolto l’anima…….
Eravamo accampati con la nostra legione in mezzo al nulla, luna oscurata, pioggia e vento. Una legione composta da 10.000 uomini, valorosi, coraggiosi, affamati……molti feriti, altri in fin di vita. A morire in una terra che non ci apparteneva.
Battaglie su battaglie, sconfitte, vittorie, amici e nemici lasciati sulla verde erba rigogliosa dopo le piogge di Aprile. Ora siamo rimasti in 3.000 uomini, in quanto Roma ne aveva richiamati la maggior parte, e altri purtroppo erano quelli che non fecero più ritorno, caduti da gloriosi eroi. Il tempo passava, come le stagioni. La barba incolta mi faceva capire lo scandire inesorabile dei mesi che come fulmini passavano.
Arrivammo finalmente ad un nostro avamposto. Fummo accolti non come soldati, ma come fratelli.
Andai nella stanza assegnatami, non da semplice soldato ma da Tribuno, comandante di una parte dei soldati rimasti. A breve venni chiamato nella sala delle strategie, dove generali, comandanti e gregari studiavano i vari piani di azione per poter rimanere in vita più che conquistare.
Incontrai, dopo tanti anni che non lo vedevo, Marco Aurelio Cracco, cresciuto con me in Roma, addestrato da uno dei migliori, Augusto Senna, gran centurione. Ci abbracciammo e ci scesero alcune lacrime.
Mi chiamarono poi per attirare la mia attenzione “Tribuno Tiberio Domiziano possiamo iniziare?”…Io sorrisi, mi scusai, e mi misi assieme a loro
Ragionammo tutto il pomeriggio. Poi finalmente il banchetto serale. Erano molte lune che non cenavamo così.
Il giorno dopo preparammo tutto ciò che si era detto il giorno prima.
Ci volle tempo, giorni, per mettere a punto molte cose. Poi partimmo, 2.500 uomini altri rimasero nella fortezza; sarebbe stato un viaggio lungo, ma non pensavo così triste per la conclusione.
Dopo circa 9 giorni di marcia arrivammo alla nostra destinazione. Radure verdi, foreste, montagne. Cacciagione e selvaggina per poterci sfamare, acqua di sorgente per dissetarci. Sembrava tutto perfetto, anche troppo.
Quella notte non riuscivo a dormire, avevo incubi reali, presagi di morte, dolori atroci. Mi alzai e mi misi a guardare il cielo, una meravigliosa Luna piena, che illuminava la distesa delle valli dove eravamo. Sembrava mi guardasse e piangesse, come per ricordarmi così, prima della mia morte.
Brividi di freddo e torpore mi assalirono, tornai in tenda e cercai di dormire almeno qualche ora.
Il risveglio non fu facile visto la travagliata notte che avevo passato
Ad un certo punto, un nostro soldato di guardia, iniziò a suonare la tromba d’allarme. Un drappello di uomini a cavallo, recanti bandiera con i simboli romani, correva verso di noi come trasportati dal vento del nord, forte, rapido, gelido.
Scesero e uno di loro, sporco di fango, sangue e fatica, venne verso di me. Era l’amico fraterno Marco Aurelio. Caduti in una imboscata durante l’attraversamento di una foresta, soldati morti, decimati dalle mille frecce scoccate dagli archi dei nemici, appostati come falchi al buio pronti a ghermire la preda.
Ci disse che migliaia di uomini stavano marciando verso il nostro accampamento
Non ebbi esitazione. Dissi a tutti di prepararsi per affrontare un nemico molto forte, che voleva respingere le nostre resistenze, che voleva far vedere la sua supremazia su Roma, e che scherniva i soldati romani definendoli burattini, non guerrieri, ma femmine che piangono morendo in battaglia chiedendo pietà per la vita. Aggiunsi che, morire in battaglia, è un onore riservato a pochi veri uomini, riservato agli eroi, ed io, se fosse stata la mia ora, sarei morto senza paura ma con negli occhi lo sguardo del coraggio e che tutti noi dovevamo incutere timore durante il combattimento ai nostri avversari dimostrando loro come muore un Romano, non come un burattino, ma come un possente e valoroso soldato che ha fede negli ideali per i quali ha prestato giuramento.
Sentii un coro di voci urlanti possedute dalla forza degli Dei che osannava il nome di Roma, dei Tribuni, ed il mio nome, Tiberio. Nei loro occhi fiamme, fuoco, voglia di vincere anche oltre la morte. Erano i nostri uomini, carichi e trepidanti, pronti a far capire al nemico il proprio onore contro chi onore non ne ha.
Non ci volle molto per schierarci, pronti, forti, ben armati e corazzati con i nostri grandi scudi rettangolari con effigi di Leoni e di Aquile; lance, archi, frecce, spade, cavalli sellati e vestiti a battaglia. Tutto pronto. Con gli altri Tribuni e con l’amico Marco Aurelio studiammo un piano, una strategia, per poter difendere le nostre vite e prendere noi le loro.
Ci dividemmo, truppe a piedi appostate all’inizio della radura, i migliori con gli archi, circa 500, suddivisi a metà nelle due foreste ai lati della verde distesa che di li a breve sarebbe stata insanguinata. Io guidavo con Marco Aurelio le truppe a cavallo.
Iniziò a calare la sera, le nubi all’orizzonte avevano l’odore di pioggia trasportata dal vento. Passarono minuti che sembravano ore, qualche goccia, poi una lieve pioggia, sottile, tagliente come lame, gocce non fredde, ma tiepide, come se volessero i nostri Dei darci calore anche nell’anima.
Udimmo suoni provenire in lontananza, ombre, rumori di tamburi, cori che osannavano la loro vittoria, insulti alle nostre donne e alle nostre divinità.
Poi il silenzio. Erano fermi, immobili, davanti a noi, distanti ma non troppo, schierati come pali in perfetta geometria. Davanti a loro 5 uomini a cavallo, vestiti di armature luccicanti, forse anche più delle nostre, con scudi rotondi, grandi, con disegni di animali bellissimi. Uno dei cinque, quelli in centro, fece avanzare di una incollatura il suo cavallo, volse lo sguardo prima a destra urlando un comando, poi a sinistra urlando un altro ordine. Sguainò la sua spada, luminosa anch’essa, e la additò verso di noi, e i fanti iniziarono ad avanzare. Ad un certo punto si aprirono in mezzo, e da dietro centinaia di uomini a cavallo si fecero largo avanzando velocemente. Non avevano spade in mano, ma archi, e iniziarono a scoccare frecce come fulmini che vogliono colpire folgorando. Ordinammo alle truppe di serrare i ranghi, di unire gli scudi a testuggine. Appena in tempo; le frecce si schiantarono sulle nostre difese. Alcune passarono, qualche uomo cadde, ferito, o peggio ancora, morto. Fu il nostro momento. Venne ordinato ai nostri arcieri nascosti all’interno della foresta di scoccare. Non si udiva più il rumore della pioggia, ne le urla dei soldati nemici, ma il forte sibilo delle 500 frecce scoccate, riscoccate, e lanciate ancora, con una velocità indescrivibile. Tanto che non si vedeva più il buio del cielo ma il colore del legno con le luccicanti punte mortali che volavano. E colpirono, cavalli innocenti caduti morti, soldati agonizzanti, molti salvati dai loro scudi ma altri senza vita a terra.. Ma non si fermarono; venne impartito dal loro comandante un altro ordine e altri fanti, numerosi, avanzarono in sostegno; la loro cavalleria veniva questa volta dai lati, ma non con archi e frecce, sta volta con le spade.
Allora impartimmo anche noi i nostri ordini. Andammo tutti in battaglia. Armati di voglia di gloria, di vita e di morte nello stesso momento, di tanta paura ma ancor di più di coraggio, io e Marco Aurelio con le nostre spade, amiche di mille battaglie, parte del nostro corpo, taglienti come rasoi e leggiadre come una piuma, al galoppo insieme ai nostri valorosi uomini.
I cavalli annaspavano e affannavano per la foga con cui li spronavamo a correre. Poi lo scontro. Colpi parati, colpi inferti, segni sullo scudo. Dolori di ferite lievi, l’odore del fango, dell’acqua, del sangue, della morte. Non si risparmiavano colpi. Frecce nemiche che mi sfioravano tagliandomi i capelli, lambendomi la pelle del viso. Una colpì il mio pennacchio, mi fece male, perché la sua forza mi diede uno strappo al collo ove l’elmo romano era legato con ferro e cuoio. Ebbi un attimo di sbandamento e mi colpirono. Caddi da cavallo. Marco Aurelio mi vide a terra, si fermò, scese anche lui a combattere al mio fianco. Fanti e legionari del nostro rango arrivarono veloci a combattere vicini. I nemici erano tanti, ma non avevamo più paura, ma solo tanta adrenalina data dal sapore del sangue giunto alla nostra bocca, al naso, come una essenza che ci poteva drogare, come lupi assatanati pronti ad azzannare la preda. E combattemmo senza timore.
Non so come successe ma ad un certo punto della battaglia ci trovammo d’innanzi ai 5 comandanti nemici; anche loro ormai scesi dai loro cavalli, anche loro segnati dalla battaglia. Io, Marco Aurelio e i nostri uomini affrontammo in uno duro conflitto loro, ed i loro fedeli combattenti. Fu un epico scontro, del quale non dimenticherò mai memoria, lungo, cruento, doloroso, triste.
Non potevamo sapere se saremmo sopravvissuti noi o loro, ma con impeto mai eguagliato, andammo avanti. Perdite di uomini da entrambi il lati. Tre dei cinque comandanti caddero. Io e Marco eravamo innanzi ai due più forti, il loro primo comandante e il suo fidato compagno, come eravamo noi due. Scintille delle nostre lame illuminavano il buio; le nostre urla confuse con le loro, per fare uscire tutta la grinta e la forza che avevamo. Io stavo lottando con il mio pari di grado. Marco con l’altro. Vidi che il mio fraterno amico stava avendo la meglio sul suo nemico, lo aveva disarmato e stava per colpirlo. Lo fece, colpito diritto nello stomaco. La sua spada lo aveva passato da parte a parte. Il sangue all’uomo usciva anche dalla bocca. Guardò Marco, e con un ultimo rimasuglio di vita, afferrò un coltello che aveva nella sua armatura e lo infilò nel collo del mio fraterno amico. Io urlai, impotente, la rabbia mi salì da dentro trasformando i miei occhi in quelli di un feroce assassino senza pietà. L’uomo dinnanzi a me vide il mio cambiamento. Divenni più combattivo, più adrenalinico, colpii, colpii ancora, sempre più forte, mentre l’altro indietreggiava sotto i miei fendenti. Impaurito, quasi stremato, fino a che cadde, lo trafissi, una, due, tre volte. Spirò.
I nostri uomini stavano avendo la meglio sul nemico, senza più comandanti che Iniziò ad indietreggiare fino a ritirarsi, sconfitto; ma la nostra vittoria, a che prezzo………..per Roma, per gli Dei…….
Corsi da chi non respirava più, le mie lacrime erano sporche del mio sangue, la mia voce straziata dal dolore, il corpo mi tremava. Presi Marco Aurelio sperando che fosse ancora vivo, ma il suo sangue mi riempì le mani, le gambe, il viso e la mia barba. Lo strinsi a me come un fratello stringerebbe il proprio caduto in battaglia, i miei uomini che volevano staccarmi senza riuscirci, Marco Aurelio, amico di una vita fatta di sacrifici, di lotte, di gioie e di dolori, combattente, eroe valoroso, morto…… e io continuavo ad urlare, a piangere a sentire il suo sangue, ad urlare agli Dei chiedendo perché lui e non me; con le mie ultime forze stremato dalla battaglia, dalla tragedia, dal dolore, lo sollevai, lo portai via da li, lo misi sul suo cavallo, lo riportai al campo.
Gli diedi giusta sepoltura, con gli onori come se fosse un Cesare, un Dio; era un uomo, con gli ideali di Roma nel cuore, con la sua fede, con il suo cuore, con la paura ed il coraggio sempre a lottare, ma senza mai tirarsi indietro da niente. Marco Aurelio, una parte della mia anima, del mio cuore, della mia vita. Che possa riposare in pace.
Dopo quel cruento giorno, fatto di morte, dolore, atroce dolore per la mia persona, le battaglie diminuirono, io combattevo sempre audacemente, in prima linea, con il ricordo di Marco dentro di me. Poi un giorno arrivò l’ordine di rientrare in patria.
Arrivati a Roma, dopo vari convenevoli, ci riunimmo tra tutti i vari comandanti. Fu lunga la giornata. Ma poi alla fine, ebbi il mio compenso. Rimanere a Roma, ad istruire i nuovi giovani, legionari, fanti, centurioni. La mia esperienza era grande, come il mio dolore. Fino al giorno in cui, all’età di 47 anni, incontrai l’amore della mia vita, una donna che già conoscevo dai tempi passati, ma che non avevo mai avuto il coraggio di guardare con gli occhi dell’amore, forse perché prima ero troppo intento a voler andare via a combattere, ma adesso, che avevo capito quanto vale una vita, potevo provare a dimostrarle il mio amore.
Fu una vita felice, tranquilla, dentro le mura di Roma, con i ricordi di Marco nel cuore e nell’anima, sognandolo la notte con il suo sorriso, come quando eravamo ragazzi, scherzando e facendo goliardie.
Ora con la saggezza di vecchio padre e marito, capisco quanto vale una vita, cosa fa veramente male e cosa è superficiale, quanto vale una lacrima, un dolore, una gioia, la felicità, l’armonia con l’universo.
E tramando questo sapere ai piccoli giovani fanciulli romani che vengono a sentire i miei racconti di battaglie del tempo passato, agitando nell’aree le loro spade di legno, i loro scudi fatti di leggero cuoio, immedesimandosi nei soldati che duellavano per un ideale, ideale che è una fede, un giuramento, una verità, come l’amore, forte, sincero, rispettoso e soprattutto proveniente dal cuore e dall’anima come il nostro credo in roma.
Oxford Brogue
XVIII – X – MMXVI